Nel ricercare l’origine di uno stato di malessere o di un dolore persistente, può capitare che, dopo numerose indagini cliniche a esito negativo, si arrivi a diagnosticare che la natura del problema sia di tipo psicosomatico.
Se da un lato ci si sente sollevati per i risultati confortanti delle ricerche mediche, dall’altro il problema si mantiene e soprattutto si aprono diverse incognite: prima fra tutte quella inerente a come procedere per ritrovare lo stato di benessere desiderato. In questi casi solitamente l’indicazione è di consultare uno psicologo o, meglio, uno psicoterapeuta. Come può uno psicologo intervenire su un problema che si esprime attraverso il corpo?
Il dubbio nasce quando si parte dalla convinzione che corpo e mente siano entità distinte che lavorano indipendentemente e che, semplicemente, si trovano a coabitare. Quest’idea genera nelle persone, la sensazione che la mente possieda dei lati oscuri che le permettono di muoversi in totale autonomia e indipendentemente dalla volontà individuale, mettendo in scacco la possibilità di agire consapevolmente da parte dell’individuo. Tuttavia, mente e corpo risultano divisi sono dialogicamente, per pura retorica costruita dall’uomo: operativamente il loro lavoro si sviluppa in sincronia continua a doppio legame. Si pensi, ad esempio, ai momenti in cui ascoltando una canzone o la lettura di un brano ci viene la cosiddetta pelle d’oca; oppure, ancora, guardando una scena d’azione in un film sentiamo la muscolatura contratta pur essendo comodamente seduti sul divano. E chi non ha mai percepito una stretta allo stomaco, in attesa del risultato di un esame? Quando abbiamo fame, ad esempio, siamo meno pronti nelle risposte e nelle richieste di tipo cognitivo; se abbiamo mal di testa, mal di denti o mal di schiena, ad esempio, sentiamo che il dolore interferisce a vario titolo anche in attività che coinvolgono il pensiero.
La mente quindi si può definire più propriamente come un prodotto del nostro corpo che si estende anche oltre i suoi confini: la relazione, il contatto e l’interscambio con le altre persone, permettono che i nostri pensieri, giudizi e valutazioni siano sottoposte a continua revisione. Parlare, quindi, di mente alla stregua di un organo appare quantomeno riduttivo e poco esplicativo delle modalità attraverso cui si crea e si modifica nel tempo. L’idea di una mente interattiva e generata all’interno di una relazione appare una prospettiva più appropriata e apre a scenari significativi non solo da un punto di vista filosofico e teoretico, ma soprattutto clinico, nei termini anche di tecniche o strategie di intervento. Si può quindi comprendere come la suddivisione puramente nominale e definitoria di mente e corpo trovi una nuova collocazione nella dimensione olistica che non vuole, per suo impianto teorico, considerare e trattare la persona a partire dalle sue singole componenti, bensì leggendo la complessità e l’organizzazione del sistema nella sua interezza sinergica. Nell’agire quotidiano, in virtù del contatto continuo con persone, pensieri e riflessioni differenti, anche nei termini di un dialogo interno alla persona, è possibile perdere l’origine di alcune convinzioni, modalità di azione o griglie di lettura con cui tradurre gli eventi che ci coinvolgono. Di conseguenza, nella sommatoria delle piccole decisione di ogni minuto, è possibile che alcuni elementi godano di un’attenzione transitoria e alla nostra consapevolezza alcuni appaiano maggiormente utili di altri: analogamente, le abitudini comportamentali che ripetiamo frequentemente godono della nostra attenzione solo nel momento in cui diventano disfunzionali all’agire della persona o quando siamo portati a riflettere in modo specifico su di essi. Come intervenire, dunque, in presenza di un problema definito psicosomatico, alla luce di quanto più sopra descritto?
Bruner (1987), sostiene che la vita o gli episodi che abitiamo, siano paragonabili e analizzabili come se fossero delle storie, racconti, e come tali possono essere riconoscibili elementi strutturali soggetti di modificazione. Nello specifico, osservare vicende personali come sullo schermo di un cinema sovvertirebbe radicalmente la prospettiva e i canoni utilizzati fino a poco tempo prima. Usciti dal ruolo di protagonista, quali altri sono ancora possibili? Ad esempio, quello di regista. In altre parole, cambiando la prospettiva, gli occhiali con cui leggere gli eventi che accadono (o che facciamo accadere), apre a scenari differenti che offrono la possibilità di intervenire su di essi in una modalità maggiormente funzionale alla precedente. Analogamente, dove prima regnava stagnazione ora è possibile percepire movimento e potere: potere che assume il valore della scelta. Il ruolo dello psicoterapeuta, sull’onda di tale ottica, sarà di offrire alla persona la possibilità di considerare la problematica portata attraverso differenti prospettive in luogo di una soltanto. Chi avrebbe piacere di essere invitato ad un buffet con un solo tipo di pietanza? Superiore sarà la scelta e maggiore la soddisfazione dei commensali. Ad esempio, molto frequentemente, a fronte di un disturbo psicosomatico, viene indicato lo stress come causa principale: tale consapevolezza, tuttavia, sposta la persona ben poco dal suo disagio, anzi, generalmente la infastidisce ancora di più facendole percepire di possedere ancora meno strumenti di intervento. Cominciare a leggere lo stress non come una causa ma un contenitore di situazioni che possono rivelarsi poco efficaci per il mantenimento del benessere, apre alla persona nuovi spazi di azione. Quali situazioni risultano faticose? Quali, in questo momento, hanno una maggiore possibilità di essere modificate? Quali azioni si possono attuare per rendere una circostanza meno difficoltosa da gestire? Come tutelo il mio benessere? Talvolta, la tendenza a focalizzarci su un unico elemento di un evento, magari quello con la minor possibilità di modifica, acuisce la sensazione di intrappolamento, opacizzando il riconoscimento di altre vie possibili. Il termine stress diventa così una parola “trappola” che poco aiuta la persona e che soprattutto non descrive la sua problematica o difficoltà in modo sartoriale e rispettoso della sua storia avendo un forte potere condensatore e riduttivo. Molte persone, di fronte alla dichiarazione “è tutta una questione di stress” legano velocemente l’idea di dover mettere in atto faticose modificazioni nella routine giornaliera senza, peraltro, riconoscerne spazi di realizzabilità. Minore importanza e attenzione viene riservata all’analisi del racconto di chi porta la problematica: quali connessioni di eventi compie, quali metafore sceglie per descrivere il proprio disagio o quali particolari sceglie di tralasciare. Oppure ancora, quali siano state le soluzioni adottate fino ad ora e per quali ragioni sono arrivate a non essere più efficaci. Tralasciando questi aspetti, all’interno della ri-costruzione di un evento, si rischia di abdicare anche a spostamenti minimi di abitudini che possono diventare motivo di evoluzione e cambiamento.
In altre parole, considerare una problematica non come una proprietà della persona bensì il risultato di una serie complessa di intrecci relazionali, di storie, punti di vista e prospettive permette di analizzare il problema in modo maggiormente attivo. Tale prospettiva, offre la possibilità alla persona di riconfigurare la lettura della propria problematica, riassumendone il comando e riappropriandosi della facoltà di scegliere quale direzione intraprendere, abbandonando la sensazione di essere trascinati e governati dagli eventi.
Stefano Zanon
Psicologo, Psicoterapeuta, PhD